mercoledì 24 ottobre 2012



Massimo Bolognino

 
 La “contemplazione della natura” nei Padri greci ed in Teilhard de Chardin


“Come abbiamo due occhi nel nostro corpo, così abbiamo due occhi spirituali…e ciascuno ha il suo campo di visione. Con un occhio vediamo i segreti della gloria di Dio nascosta negli esseri…Con l’altro contempliamo la gloria della santa natura di Dio” (Isacco Siro, Trattato ascetico)


La contemplazione nell’Oriente cristiano si snoda attraverso due principali tappe: la theologìa vera e propria, la contemplazione dell’abisso triunitario attinto apofaticamente – ma è l’apofatismo dell’amore e della comunione – nell’ek-stasis da ogni modalità conoscitiva finita, nell’uscita dai movimenti della psiche sino ai bordi di silenzio della luce intratrinitaria ed in cui l’anima svuotata perviene all’abbandono dell’amore, in un’alternanza di luce e tenebre, di partecipazione all’impartecipabilità, all’inoggettivabilità, all’inesauribilità della vita della divinità.
E la theorìa physichè, ovvero – ed è ciò di cui tratteremo brevemente – “la contemplazione della natura”.
Secondo la concezione dei Padri greci ed esicasti la natura cosmica (ed umana) non è contemplabile unicamente dallo sguardo scientifico, impersonale cui invece si cela per non mostrarsi che sotto un aspetto oggettivato e sostanzialista da “de rerum natura”.
Una volta purificato il cuore-spirito da ogni maculazione passionale, dal flusso dello psichismo che distorce la percezione nuda e casta dell’essere, una volta dismessa nell’ascesi e nell’umiltà la volontà appropriativa che guarda all’altro ed al mondo come una preda, come una risorsa da sfruttare, il mondo apparirà allo “spirituale”, allo pneumatikòs, come un oceano di simboli, come un gioco prospettico di trasparenze a gradi differenti della Luce trisolare. Le idee- volontà divine (assimilabili alle energie divine di cui parla Gregorio Palamas) che informano il creato aprendolo all’incessante comunicazione della vita di Dio non sono immobilizzate nella staticità di un universo ideale tutt’uno con la natura divina e di cui il mondo sarebbe una brutta copia da abbandonare, un errore da cui liberarsi ma dinamismi partecipativi della luce ad un tempo creatrice e divinizzante della Trinità e che accolta nella libertà dalla creatura non ne annulla la consistenza ma al contrario ne compie pienamente la creazione. 
 “Lo scopo delle fatiche ascetiche è perciò di percepire tutto il creato nella sua vittoriosa bellezza originaria. Lo Spirito Santo rivela se stesso nella capacità di vedere la bellezza della creatura; scorgerla sempre e dovunque significherebbe risorgere all’immortalità prima della comune resurrezione, fruire in anticipo della rivelazione ultima, quella del Paraclito…” (Pavel Florenskji).
 L’universo è strutturato come un’immensa lode, una liturgia cosmica, un “inno mirabilmente composto”, dice san Basilio nelle sue “Omelie sull’Esamerone”, in cui la totalità creata procede dal Padre, per il Figlio – mediatore cosmico della creazione e della deificazione – nelle energie del Santo Spirito. La gloria triunitaria, il suo irraggiamento che ad un tempo vela e manifesta la divinità abissale della Trinità, è il luogo, il grembo del mondo. Se in un filone della mistica ebraica si ricorre al simbolo dello “Tzimtzum”, di un paradossale ritrarsi del Santo, dell’Uno dalla sua pienezza per eventuare in sé un luogo cavo, un “nulla di Dio” che diventa altresì la condizione per l’esistenza dell’altro, del mondo, nella mistica cristiana tale vuoto, tale luogo, tale ritrarsi accade all’interno della stessa Trinità.
Per i Padri esicasti come per i filosofi religiosi russi del XIX sec. lo spazio della creazione non è il semplice nulla come assenza ma la kenosis, lo svuotamento d’amore del Padre nel comunicare al Figlio ed allo Spirito tutta la ricchezza della sua partecipabilità; lo svuotamento d’amore del Figlio nel ricevere – eternamente in sinu patris e nel “tempo” della morte e resurrezione - tale irradiazione gloriosa, da Lui nuovamente accolta, reintegrata e donata nella forza dello Spirito all’umanità assunta dopo essere stata da essa come “bloccata” dal peccato, dal ripiegamento autocentrato della filautìa.
Lo scopo della purificazione dell’occhio del cuore e della “contemplazione della natura” è quello di riuscire nuovamente a scoprire il creato nella sua trasparenza originaria, a discernere nella trama della storia e dell’esistenza della creatura il flusso di gloria, l’irradiazione delle energie divine oscurato dal peccato e che l’incarnazione del Verbo e la pneumatizzazione del creato hanno nuovamente restaurato, ma che pure resta come fuoco dormiente sotto la cenere, sotto la scorza opaca del “mondo” (“nome collettivo che indica l’insieme delle passioni” per Isacco il Siro), in attesa di essere nuovamente guardato, attuato e bene-detto dal lavoro ascetico dell’uomo liberato.
Secondo la concezione gnoseologica dei Padri greci solo la luce può vedere la luce, solo l’occhio dell’intelletto nudo può farsi trasparenza, al fondo di sé, di quella gloria che come unica luce sofianica, tessuto increato del creato, unisce il soggetto all’oggetto, abolisce l’esteriorità dell’uno e l’illusoria chiusura dell’altro in una conoscenza che è altresì – per dirla con Claudel – connascenza reciproca, reciproco destarsi e ri-destarsi dell’uomo a se stesso – oltre se stesso – ed al mondo nella luce increata del Logos, nell’energia d’amore dello Spirito Santo che unifica il caos in cosmos, che incessantemente trionfa sulla morte e su tutte le nostre situazioni di morte.
“A questo punto si impongono alcuni confronti: con la Cabala che vede nelle profondità delle parole ebraiche la radice spirituale degli esseri; con tutta una tradizione cosmologica dell’occidente che parla di signatura rerum; con la filosofia del linguaggio in India che distingue le parole – germe (sphota), che strutturano l’universo, e le parole sonore (dhvani), solitamente sottomesse alle regole della fonetica e della grammatica, distinzione questa che si potrebbe trovare nella patristica greca: da un lato, con la concezione quasi kantiana dei concetti delle cose presso i Cappadoci, e dall’altro con i logoi intesi da Massimo il Confessore come le loro essenze spirituali… La capacità di discernere i logoi delle cose sfocia nella capacità di contemplare la loro complessa unità, l’interconnessione, nel Logos, delle loro radici spirituali” (O.Clement).

 Teilhard de Chardin ed i Padri

Confronto particolarmente stimolante è poi quello con il pensiero di P. Teilhard de Chardin le cui affinità con la concezione cosmologica dei padri greci e particolarmente di Massimo il Confessore è già stata notata in sede di studio. Accenneremo dunque solo ad alcuni snodi e nessi particolarmente significativi di questa vicinanza ed in grado forse di aiutare a comprendere come l’originalità spesso considerata eccessiva quando non equivocata di un pensatore, un mistico come il padre de Chardin, non sia da rinvenire in eccentricità individualistiche ma semmai nella fedeltà ad una Tradizione spesso obliata nelle sue componenti più vitali e feconde.
Tanto nella patristica greca quanto in Teilhard de Chardin è presente come abbiamo visto un forte radicamento del creato nell’irradiazione della gloria triunitaria, della quale il cosmo e l’umanità sono un riflesso ed una partecipazione a gradi progressivi di strutturazione e di sintesi unificante, sino alla pleromizzazione ed alla piena somiglianza con la “Sofia increata”.
Somiglianza dunque con la Sapienza divina intesa, su una linea di pensiero patristico più sofiologica, sulla scorta di Gregorio Nazianzeno, che logologica, non tanto e non solo come la seconda persona della Triunità quanto come il contenuto intelligibile del e nel Verbo stesso, il “panorganismo delle idee-volontà divine sul mondo” (S. Bulgakov), alla radice ontologica del mondo, suo riflesso e “sofia creata”. Attraverso le idee-volontà, o potremmo dire l’azione fecondatrice dell’ “eterno femminino” teilhardiano, del punto vergine al cuore delle cose traverso cui esse partecipano all’energia vivificante e divinizzante del Santo Spirito, il creato e l’umanità comunicano pienamente non all’inoggettivabilità ed alla trascendenza assoluta dell’essenza divina, ma alla gloria della Triunità.
Se per Teilhard “l’unione differenzia”, nella teologia trinitaria patristica è precisamente all’interno del “moto immobile dell’Uno” che si dà la possibilità e la pensabilità di un’alterità creata che emerge nel grembo di luce della donazione dell’Agape triunitario, nella prima alterità – il Verbo, Figlio -  immanente Dio stesso e nell’unità dello Spirito, non per annullarvisi ma per manifestarvisi come Pleroma, come mondo divino in Dio, come creazione pienamente compiuta nella sua diafania alla luce della Triunità, suo riflesso e gioia eterna secondo quella “pleromizzazione dell’essere che - per Teilhard - dovrà un giorno collegarsi alla trinitizzazione in una qualche ontologia generalizzata”, un’ontologia che con i Padri definiremmo comunionale.
L’ontologia degli esseri e delle cose non è infatti quella di una natura cieca o impersonale ma, oseremmo dire, una “fisica” cristologica, pneumatologica e trinitaria. E’ un’ontologia della donazione nella libertà, in cui la libertà dell’uomo è coinvolta e chiamata all’accoglienza, al ricevere attimo per attimo nel flusso delle energie divine la sua “identità per grazia” unitamente a tutte le creature, oppure a rifiutarsi ad essa, rifiutandosi all’attuazione della propria deificazione ed arrestando, “ossificando” (Berdjaev) la percezione del mondo, riducendolo con lo sguardo e con la prassi conseguente ad oggetto morto, consegnato alla deriva entropica di una vita per la morte.
“Ecco dunque, da una parte, la vuota libertà dell’individuo, e dall’altra il movimento di adorazione, di celebrazione, di apertura all’infinito che è la “natura” in noi ma che, non essendo più espresso dalle nostre persone e da esse legato a Dio, diviene un movimento folle, selvaggio che ci trascina in uno slancio insensato, ormai impersonale. Sopravviene allora la ricerca di un’estasi – non importa quale – attraverso la distruzione, la droga o l’erotismo. L’inserimento eucaristico della natura nella persona si trasforma in un imprigionamento infernale dell’individuo nella natura.” (O.Clement).
San Massimo il Confessore radicava il percorso contemplativo, la visione della natura e la gnosi trinitaria eucaristicamente, all’interno del Corpo del Risorto, identificando la natura creata con la sua carne, le idee-volontà che strutturano e vitalizzano il cosmo unificandolo in Dio con il suo sangue, e l’abisso della Triunità con il segreto inaccessibile della sua anima. Il cuore di questa immensa liturgia cosmica, di questa “messa sul mondo”, di questa cosmogenesi ed antropogenesi cristica non è - tanto per i Padri quanto per Teilhard - il Verbo “in divinis” quanto il Verbo incarnato, crocifisso e risorto in tutta  la densità del creato. E’ il corpo di Cristo che nella sua resurrezione, nella sua totale pneumatizzazione nello Spirito, “divenuto” tutto e solo amore e donazione kenotica di sé, trasparenza nell’umanità assunta alla generazione eterna del/dal Padre che da sempre lo costituisce in quanto Figlio unigenito, si sottrae alle limitazioni spazio temporali per divenire compresente a tutti ed a ciascuno, attivando le profondità ontologiche ultime ed intime della creazione inattuate dal peccato e liberate nella forza dello Spirito.
Lo Spirito del Cristo o la presenza del Cristo risorto nello Spirito diviene anche per Teilhard de Chardin la dynamis, la forza della Croce di “ek-centrazione” che conduce le creature ad uscire dal ripiegamento autocentrato della limitazione biopsichica per donarsi reciprocamente, spezzando la loro piccola individualità e “supercentrandosi” in Cristo, nell’unione con tutti in Lui, in una sola Vita di amore che consuma in sé la morte e la fatalità di un creato abbandonato all’inerzia ed alla gravità.
Alcuni interpreti hanno creduto di ravvisare nelle concezioni teilhardiane una sorta di necessità, di “automatismo” della redenzione che oscurerebbe il dramma e la tragedia della libertà personale, del libero volere dell’uomo che nemmeno Dio può forzare e violare perché, ancora con i Padri, “Dio può tutto tranne che obbligare l’uomo ad amarlo”, che imporsi a lui nell’aspetto di una forza cogente ed eteronoma e non nell’umiltà della kenosis e dell’amore che si offre alla libertà dell’uomo come luogo della sua dilatazione in pienezza e mai della sua mortificazione.
In realtà, ancora, tanto per i Padri quanto per Teilhard l’aspetto pneumatologico, la vita nello Spirito e nella libertà di un Agape che vive unicamente nella e come libertà dell’uomo, nell’accoglienza in Cristo della vita triunitaria, è sotteso a tutta la cristologia, a tutta la teologia, a tutta la storia della salvezza che è sempre sinergia tra libertà dell’offerta “eis telos”, sino alla morte, del Verbo incarnato per resuscitare le profondità sofianiche del creato, e dell’accoglienza dell’uomo chiamato in Cristo e nello Spirito al ruolo di creatore creato.
E’ attraverso la libertà umana che l’immensa circolazione di gloria che struttura e fonda la natura cosmica può nuovamente trovare il suo Centro in Cristo, come suo pleroma ed irradiazione gloriosa oppure implodere nel “ritorno offensivo di una moltitudine” irredenta.
L’uomo non è solo individuo, frammento di sopravvivenza psicofisica egocentrata che nel tentativo disperato di autoaffermazione lacera l’unità ontologica della natura cosmica ed umana, ma altresì persona in comunione, ipostasi capace, in unità d’amore con il Logos incarnato, di attingere o riattingere, di attuare l’unità di un’umanità integrale, l’armonia di una unità cosmoteandrica (cosmica, umana e divina) in cui la distinzione delle persone è ordinata alla comunione in una sola Vita, un solo Agape che circola tra tutti e tutti unifica in una pericoresi “ad immagine” della Santa Trinità.
Secondo la cosmologia, la “fisica celeste” dei padri orientali, la percezione ordinaria del mondo è il prodotto di un decadimento dalla vera natura del creato, il prodotto di uno sguardo oggettivante che ha perduto il contatto con la profondità nascosta del cosmo, là ove affonda le sue radici nell’incessante flusso della gloria divina, nella luce trasfigurante dello Spirito. Lo stato decaduto della creazione sottoposta all’opacità di uno spazio – tempo che separa ed implode nella morte, è come “congelato” dagli sguardi predatori, laceranti di un’umanità a sua volta frantumata nel gioco oppositivo di miriadi di volontà individuali, di individualità psicologiche. La rete di questi sguardi predatori imprigiona il creato e ne determina, ne crea un’immagine distorta, illusoria, mortifera.
“Il progetto divino – unirsi al creato attraverso l’uomo, deificarlo – è ripreso in un contesto divenuto ormai tragico, nel quale l’attualizzazione dell’imago dei attraverso le rivelazioni e le sapienze (quelle che la tradizione del cristianesimo antico chiamava “visite del Verbo”) esige un’ascesi violenta, nel quale, ancora, la croce cosmica, simbolo universale, deve diventare la croce del Golgota, prima di ergersi come nuovo Albero della vita… In questa prospettiva, infatti, tutto culmina nel mistero di Cristo, nella sua Incarnazione, nella sua Passione e nella sua Risurrezione che restituiscono finalmente agli uomini la possibilità di trasfigurare l’universo. Il mistero dell’Incarnazione del Logos contiene in sé – dice S. Massimo il Confessore – tutto il significato delle creature sensibili e intelligibili. Chi conosce il mistero della Croce e del Sepolcro conosce il senso autentico delle cose. E chi è iniziato al significato nascosto della Risurrezione conosce lo scopo per cui, sin dall’origine, Dio creò il tutto” (O. Clement).
Indubbiamente anche per Teilhard de Chardin è la Croce il punto focale della contemplazione trasfigurata della natura, della lucidità di uno sguardo capace di liberarsi dall’opacità creaturale per farsi non semplicemente specchio passivo di una visione naturalistica ed oggettivata ma tramite “proiettivo” di una Luce che è la stessa dello Spirito nel suo incessante generare il mondo e rigenerarsi nel mondo, in Cristo. Il Cristo crocifisso e risorto, disceso negli inferi delle lacerazioni e delle croci che contrassegnano la finitudine ferita, nel cuore delle “passività di diminuzione” attraverso la sua Passione d’amore, è davvero il Punto Omega, la potenza di attrazione di un Futuro escatologico già misteriosamente presente in ogni sforzo dell’uomo per liberare nella carità il proprio sguardo egocentrato e sfigurante unendolo alla Luce trans-figurante del Veniente.
“Come un lampo che balena dall’uno all’altro polo, si rivelerà a un tratto la presenza del Cristo, accresciutasi tacitamente nelle cose…Come il fulmine, come un incendio, come un diluvio, l’attrazione del Figlio dell’Uomo afferrerà, per riunirli o per sottometterli al suo corpo, tutti gli elementi che turbinano nell’universo” (T.de Chardin, Le milieu divin, Paris 1957).



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