Riflessioni sul significato del male in Teilhard de Chardin
Virgilio Melchiorre
Nel discorso di Teilhard non è sempre facile distinguere livelli ed ambiti: questo è il punto che agita la nostra coscienza critica. Ed è bene: la ricerca del rigore, la qualificazione di un processo in una prospettiva definita - scientifica, filosofica, teologica che sia - sono esigenze inderogabili nell'itinerario veritativo. Ciò non toglie che anche un'altra disposizione sia legittima e doverosa nella lettura di una grande opera, soprattutto ove la ricchezza e la violenza del pensiero avvertono che nella profondità gli ambiti si sono confrontati e distinti, e che da quella profondità si è tentata, senza per altro volerla concludere, una nuova sintesi ed una nuova armonia. Andranno, allora, individuati i sostegni impliciti, i centri nascosti d'intelligenza, e di là andranno chiariti i discorsi più ampi, più distesi, più complessi, talora più avventurosi della superficie.
Tanto valga anche per la riflessione sul male che, con passione ed umiltà, Teilhard conduce ne Le Milieu divin. Ricordiamolo subito, il problema del male resta una spina Indelebile ed eterogenea nel cuore della ragione, giacchè il male è appunto antiragione, caduta della ragione, irrazionalità: ciò per cui la ragione non ha, in definitiva, strumenti di comprensione. In tal senso diceva Kierkegaard, « l'incomprensibilità del peccato non deriva da una conoscenza limitata, di modo che noi a furia di speculare arriveremmo a comprenderlo. No, l'incomprensibilità costituisce proprio l'essenza del male » (1). L'intelligenza assoluta del male è, dunque, una tentazione da evitare: il suo risultato potrebbe essere solo una contraddittoria riduzione del negativo nel positivo, dell'irrazionale nel razionale, come accade alla teoresi idealistica. Eppure ogni uomo deve misurarsi con questa tentazione, deve toccarne il limite.
Teilhard de Chardin fece appunto così: sino al limite, ma non oltre il limite. In un punto de Le Milieu divin (2) ci sentiamo vicini alla contraddizione di ogni emanatismo: il parteciparsi di Dio, vi si dice, è graduale, progressivo e perciò deve implicare l'imperfezione, il disordine. Il male va, dunque, inteso come un momento necessario e solo apparentemente negativo nella storia dell'essere? In realtà il discorso di Teilhard è più complesso e più sfumato, nè pretende l'assoluta comprensione di un problema che, « per i nostri spiriti e per i nostri cuori, resterà sempre uno dei misteri più conturbanti dell'Universo ». A ben vedere, ciò che Teilhard intende non è la deduzione del male, ma solo la sua condizione ontologica: condizione necessaria, ma non sufficiente. In un ambito limitato, parziale, diveniente, qual è quello del mondo, il male non è una necessità, è però una possibilità fondata: riferito all'assoluto ed alla stessa « organizzazione totale del Mondo » il male diventerebbe, in- fatti, impossibile. Esso va, dunque, inteso solo come « rischio » della finitezza e, se Teilhard considera questo rischio, questa possibilità, come inevitabili, lo fa non in senso ontologico, ma a posteriori, costatando la realtà storica, ponendosi da un « punto di vista statistico ». (3).
Non è, tuttavia, su questo che vogliamo fermare la nostra attenzione: per farlo occorrerebbe più spazio e soprattutto una più approfondita collocazione del problema nell'intera opera di Teilhard. Ciò che qui vorrei sottolineare è solo un momento, forse il più profondo, il più metafisica nella meditazione de Le Milieu divin: ed è quel muoversi di Teilhard alla positività futura, che ogni limite può disvelare: anche dove la nostra saggezza più è sconcertata, anche di fronte alla suprema negatività della morte - è scritto ne Le Milieu divin - l'uomo potrà aprirsi ad un « nuovo dominio di possibilità » (4). Ed è qui che ci corre l'onere di rintracciare il, punto implicito di chiarezza fondativa.
In un passo de La messe sur le monde leggiamo queste parole: « Noi siamo dominati dall'illusione tenace che il Fuoco, questo principio dell'essere, nasca dalla profondità della terra e che la sua fiamma si accenda progressivamente lungo tutta la brillante scia della Vita. Voi, o Signore, mi avete fatto la grazia di comprendere che questa visione era falsa e che, per scorgervi, dovevo rovesciarla... All'inizio, non v'era il freddo e non v'erano le tenebre; era il Fuoco. Ecco la Verità » (5). Mi sembra che qui ritorni un antico, fondamentale presupposto metafisico e che ne nasca una sicura conclusione. La coscienza del male, il rilievo del limite o la indicazione dell'irrazionale, non sarebbero possibili senza una misura e senza un confronto: il non essere è scoperto con l'essere, il freddo e la tenebra col Fuoco.
La coscienza dell'Essere, dell'assoluto è, dunque, il modo originario, il presupposto di ogni giudizio e di ogni sapere. Di qui consegue poi che la scoperta del negativo è insieme scoperta di un positivo che assolutamente lo abbraccia, o supera, e lo rapporta oltre di sè: l'altra faccia di ogni male, di ogni sofferenza, di ogni irrazionalità che salga alla coscienza, è per questo un « nuovo dominio di possibilità » o, com'è detto altrove, « un'energia possibile » (6).
Non sempre questa possibilità e questa positività sono determinabili, ma la certezza del loro essere potrà comunque fondare quella singolare pazienza che sta nella fede. « Ad ogni istante, da ogni fessura, la grande Cosa orribile irrompe, quella di cui ci sforziamo di dimenticare che è sempre là, da cui ci separa un semplice assito: fuoco, peste, tempesta, terremoto, scatenarsi di oscure forze morali, in un istante trascinano senza riguardi ciò che noi abbiamo penosamente costruito ed ornato con tutta la nostra intelligenza e il nostro cuore». E, tuttavia, di fronte alla Cosa orribile, non è lecito soccombere impietriti o maledicenti. La « dignità umana », cioè la forza distintiva, debole e potente, della riflessione, riconosce e giudica e perciò implica o indica l'Essere. « La Cosa enorme ed oscura - dice ancora Teilhard - il fantasma, la tempesta, se vogliamo, sono Voi! « Ego sum, nolite timere ». Tutto ciò che ci spaventa nella nostra vita, tutto quel che voi stesso ha costernato nel Giardino, non sono in fondo che le Specie o le Apparenze, la materia d’uno stesso Sacramento » (7).
Ritroviamo, così, La messe sur le monde cui ci eravamo rivolti per una chiarezza di fondo. E ritroviamo un altro senso di quella profondità: l'Essere sta all'inizio, come il Fuoco, eppure « l'illusione tenace » della coscienza superficiale sembrava porre all'inizio il freddo e la tenebra, il limite e la parzialità. Quest'illusione ha una sua verità ed un suo fondamento: il fondamento è la nostra costituzionale parzialità. Ciò che ci appare non è mai l'Essere, ma l'ente, il limite, il finito. Connettiamo, ora. le due affermazioni, l'originaria coscienza dell'Essere e l'immediata esperienza del solo ente, e ne deriviamo una conclusione che è anche un metodo: Dio rivela la sua originarietà solo nell'intimo dell'ente, del limite, del finito. La nostra attenzione, la nostra stessa attenzione religiosa, non potrà allora mai distaccarsi da questa parzialità, anche dove prevarichi in essa il segno del male, della sofferenza, della morte. Se, dunque, si dovrà parlare di rassegnazione, questa non sarà mai abbandono o passività, ma lotta che affronta il negativo con la certezza di scoprirvi un positivo. « Non raggiungerò mai la Volontà di Dio (nella sua forma subita) se non al termine delle mie forze, là dove la mia attività, tesa all'essere migliore, si trova continuamente bilanciata dalle forze che tendono ad arrestarmi o a rovesciarmi » (8).
Vorrei notare che qui non si stabilisce solo un principio di forza etica, ma un criterio metodico del più alto conoscere. Del resto, Teilhard vide bene che la distinzione fra teoresi e prassi non è in fondo reale: « per comprendere il Mondo - scrisse già nel 1919 -, non basta sapere: bisogna vedere, toccare, vivere nella presenza, bere l'esistenza tutta calda dal seno stesso della Realtà » (9). Si pone qui la norma e la responsabilità di ogni ricerca metafisica, che quando si volge al reale è spesso tentata di non guardarlo, ma di spiegarlo frettolosamente nella rarefatta astrazione dei principi: ma, allora, nè il reale è spiegato, nè la sua radice è scoperta. L'intelligenza metafisica d'ogni realtà, d'ogni regione dell'essere, può invero esercitarsi solo ove tutto il percorso di quella regione sia compiuto, solo ove ogni fenomeno sia stato descritto: quando l'attenzione fenomenologica non ha più parole o le avrebbe in modo contraddittorio, allora soltanto potrà porsi la domanda su Dio, una domanda che d'altra parte non ha mai cessato di guidarci. Vorrei concludere con un'immagine, che ne Le Milieu divin è evidentemente richiamata dalla grande meditazione nel deserto di Ordos: «io so che la Volontà divina mi sarà sempre rivelata solo al limite del mio sforzo. Come Giacobbe, toccherò Dio nella Materia solo quando sarò stato vinto da lui ».
(1) S. KIERKEGAARD, Diario, X2 A 436, tr. Fabro, Brescia,Morcelliana, 1963, vol. II, p. 38.
(2) Le Milieu divin, Parigi, Ed. du Seuil, 1957, pp. 88-89.
(3) Du cosmos à la cosmogénèse, in L'activation de l'énergie, Parigi, Ed. du Seuil, 1963, p. 271. Cfr. p. 268, ove si parla di « ragioni statistiche implacabili », di « leggi dei grandi numeri ».
(4) Le Milieu divin, cit., p. 98.
(5) In Hymme de l'Univers, Parigi, Ed. du Seuil, 1961, p. 20.
(6) Hymne de l'Univers, cit., p. 100.
(7) Le Milieu divin, cit., pp. 172-173.
(8) Ibid., pp. 99-100.
(9) La puissance spirituelle de la matière, in Hymne de l'Univers, cit., p. 67.
In : Testimonianze 8 (dicembre 1965) n° 80, 756-60
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