mercoledì 12 dicembre 2012

 
Mario Reguzzoni 
TEILHARD DE CHARDIN
Il padre Pierre Teilhard de Chardin é nato a Orcines (Puy-de-Dôme, una regione al centro della Francia), il 1° maggio 1881 ed è morto a New York il giorno di Pasqua (10 aprile) del 1955 all’età di 74 anni, colpito dal terzo infarto della sua vita. Era pronipote di Catherine Arouet, sorella di Voltaire, e durante la prima guerra mondiale, già gesuita, è stato barelliere in mezzo ai fucilieri marocchini, in prima linea, dove ha meritato una medaglia al valore e la Legion d’onore. Portando tra le sue braccia la vita di chi sta per morire, si è reso conto che il mondo ha un volto sacro e che attraverso la terra si può stabilire una comunione con Dio. Egli aveva l’ambizione di offrire il mondo moderno a Gesù Cristo ed era incapace di piegarsi alla lentezza con cui avviene l’evoluzione dei dogmi: non sapeva che prima bis ogna capire ciò che voleva dire il profeta alla gente alla quale questi parlava; poi cercare di cogliere il significato in se stesso di ciò che era stato detto; infine esprimere in una determinata cultura, in modo che la gente di un dato tempo possa capire, quello che era stato rivelato in un altro tempo e che era passato attraverso una comprensione «scientifica» prima di essere «tradotto». Teilhard non era un dogmatico; era un ricercatore che ha avuto successo nelle sue ricerche, ma non nella comprensione che di quelle ne aveva l’autorità ecclesiale.Per questo gli hanno tolto l’insegnamento della geologia all’Institut Catholique di Parig i e, nel novembre 1926, l’hanno mandato il più lontano possibile, in Cina, dove era già stato per due anni (1922-1924) di sua iniziativa. E qui ha avuto fortuna, come paleontologo. La Cina è sempre stata per i gesuiti la terra delle grandi imprese, ma, proprio perché le loro imprese erano grandi, sono stati molto tribolati. Teilhard ha scoperto il «cranio sinantropo adulto non frantumato», qualcosa di molto lontano dell’Adamo del Paradiso terrestre, ma capace di domare e usare il fuoco: si trattava di «un’onda di coscienza che avanza». Anche l’esilio era provvidenziale. Durante la seconda guerra mondiale non era con i partigiani francesi perché, dal 1939 per sei anni, è restato bloccato in Cina e quando, nel 1946, a 65 anni, è ritornato in Francia era stanco, ma anche padrone della sua scienza e sempre pronto a rinascere. Era un profeta e come tutti i profeti restava solo e abbandonato da tutti (i suoi). Mentre la Repubblica lo celebrava come «una gloria della scienza francese», Roma gli intima di mantenere il silenzio su quanto non riguarda la sua specializzazione scientifica. Invece di mettere a frutto le visioni di Teilhard e la sua profetica proposta di rinnovamento, Roma vede nella corsa dell’universo in evoluzione da venti miliardi di anni un sistema che «non è scevro di oscurità e di ambiguità pericolose» e l'enciclica Humani Generis si limita ad autorizzare gli studiosi cattolici ad ammettere la probabilità che il primo uomo sia stato creato da una «materia preesistente e vivente». Teilhard allora sceglie un altro esilio, quello dell’America, dove i gesuiti di New York lo accolgono come un amico. Egli obbedisce perinde ac cadaver al padre Generale Janssens, precisando che «Roma può avere le sue ragioni per ritenere che, nella sua forma attuale la [...] visione [che egli, Teilhard, ha] del cristianesimo sia immatura, incompleta, e che, di conseguenza, essa non possa, al momento essere diffusa senza inconvenienti», ma questo non lo porta a «interrompere la ricerca». I manoscritti vengono affidati a Jeanne Mortier, la sua segretaria, però Teilhard riconosce alla Compagnia di Gesù il diritto di «sconfessare» la sua opera, o di associarsi alla pubblicazione, o di prendere le distanze lasciando la responsabilità alla legataria. Quando Teilhard morì, al suo funerale solo una decina di persone ha seguito il feretro, ma la Casa editrice (Paul Flamand), in cui coesistevano cattolici, non cristiani e agnostici, decise subito e senza riserve la pubblicazione delle sue opere. Per sette anni, nessun gesuita francese, salvo il p. Russo nel 1958, fu disposto a testimoniare a favore di Teilhard. Il primo che lo fece fu il p. Henri de Lubac, poi cardinale di Santa Romana Chiesa, e La Pensée religieuse du père Teilhard de Chardin apparve nell’aprile del 1962, non senza il parere favorevole del generale dei gesuiti, p. Janssens: eravamo ormai al tempo di Giovanni XXIII. «Nessun pensatore vero è veramente “di tutto riposo” — scrive il p. de Lubac a pag. 280 (Jaca Book, 1983) —. L’audacia di lui, considerandola nell’insieme, fu pur sempre la “gioiosa audacia” della fede. Nel momento preciso “in cui l’umanità prende coscienza del suo destino e non può concepirlo se non terrestre o trascendente” egli è venuto [...] ad indicarle la sola direzione possibile. Tenuto conto, certo, delle inevitabili imperfezioni proprie della natura umana, la Chiesa cattolica [...] — alla quale sarebbe poco dire che egli rimase sempre ed in ogni circostanza immutabilmente fedele —, può riconoscere con gioia di aver generato in Pierre Teilhard de Chardin un autentico testimone di Gesù Cristo, quale occorreva al nostro secolo». Nel 1981, in occasione del centenario della nascita, mons. Casaroli, Segretario di Stato, inviò al rettore dell’Institut Catholique di Parigi una lettera che sembrava voler cancellare la lunga avversione romana per Teilhard. In essa, tra l’altro, si diceva che «probabilmen te il nostro tempo ricorderà, al di là delle difficoltà della concezione e dei limiti espressivi di questo audace tentativo di sintesi, la testimonianza della vita coerente di un uomo conquistato da Cristo nel più profondo del suo essere, e che si è impegnato a onorare tanto la fede quanto la ragione». Ma un comunicato stampa, nel giugno 1962, faceva sapere che la lettera del card. Casaroli era «ben lungi dal costituire una revisione delle precedenti prese di posizione della Santa Sede». Tuttavia vale per noi la lettera che p. Arrupe (successore del p. Janssens) scrisse il 15 luglio 1981 al provinciale dei gesuiti francesi, dove il generale dei gesuiti sottolinea l’instancabile attaccamento di Teilhard alla Chiesa: «E che egli abbia obbedito per la sua fede profonda nella Chiesa, e per il suo amore per lei, ce ne rendiamo conto valutando il peso della sofferenza che ciò gli è costato».

  Dalla rivista NOTAM 20 giugno 2005






















































































 
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