venerdì 11 gennaio 2013

  Marrio BLAsi
Ricetta per la felicità


 
 
Il titolo di questo breve discorso non vuole essere ironico: soprattutto non lo vuole, perché di un P.Teilhard de Chardin (e di un particolare aspetto del pensiero di lui che qui intendiamo occuparci)  sarebbe ingiusto e irriverente parlare con spirito meno che serio.
Quale è, dunque, per questo “gesuita proibito - - come lo chiama Giancarlo Vuigorelli nel suo perspicace ed interessante studio sulla vita e l’opera dell’insigne religioso – la ricetta per la felicità?
La si può compiutamente vedere nelle “ Reflexions sur le bonheur”, di cui lo stesso Vigorelli ci offre in italiano il testo integrale (nel numero 9-10 della rivista Europa Letteraria, giugno-agosto 1961 pag. 18-35. Il testo si trova oggi anche nel volume : Pierre Teilhard de Chardin, Le Direzioni del Futuro, SEI Editrice, Torino, 1996, pag. 131 -158. Il tersto può essere letto anche sul sito www.riflessioni.it . N.d.r.), non perché sul piano ideologico di Teilhard  esso costituisca uno scritto di primaria importanza (trattasi di una conferenza da lui tenuta a Pechino,  nel 1943, davanti ad un pubblico mondano, occasionale),  ma perché particolarmente atto a introdurre nel pensiero e nel linguaggio del battagliero gesuita,  il cui principio fondamentale e che “ la stessa fede in Dio – come si esprime Vigorelli – e  incompleta, se non ha dietro di sé la fede nell’uomo;  e che credere  nell’uomo vuol dire determinare,in ogni direzione e dimensione,  il progresso”.
Se non che, poter dire “ecco la ricetta per la felicità”, comporta  come è ovvio, poter prima stabilire che cosa sia la felicità: problema che, se pur non teorizzato, deve aver sempre messo in turbamento profondo l’animo dell’uomo, finchè presentato non si fu chiaramente, e con tutta la sua urgenza, alla  mente di Socrate.  Ed è proprio il nome di Socrate che ci piace qui fare, perché anch’egli, in certo modo, col suo noto asserto che la felicità “è vita secondo scienza” , parrebbe quasi anticipare  l’atteggiamento di Teilhard, seppure il filosofo greco, nel suo tentativo di definire “oggettivamente”  tanto la felicità quanto la scienza, si trovasse chiuso in un circolo.  In che consiste, si chiedeva egli infatti, la felicità?  Nella virtù.  E questa? Nella scienza.  Ma che cosa è la scienza? Conoscenza della virtù…
L’avvenimento, ora che abbiamo osato, tra Socrate e Teilhard, parrebbe affatto arbitrario:  ma un certo punto di incontro,  come accennavamo,  nell’atteggiamento dell’uno e dell’altro rispetto al problema della felicità, lo si può, a nostro avviso,  riconoscere:  quello, si vuol dire, di una cieca fede nella “scienza”: ( né importa se la scienza biologica del secondo ben poco abbia a che fare con la “episteme” dell’altro)
Fede nella scienza, dunque, e, in Teilhard, fede anche, si sa, nella  “fede”: entrambe tetragone.  Tale è la posizione del “gesuita proibito”: ed è la prima fede, che maggiormente lo induce verso quell’euforico ottimismo, che,  certamente non è  l’unico o principale volto del pensiero cristiano,  Perché, mentre Socrate, in fondo, il problema della felicità – anche se in sommo grado -  lo risolve per suo conto, De Chardin è più convinto di poterlo risolvere per sé e per ognuno: solo che ognuno sappia e voglia appoggiarsi – contro ogni invito pascaliano o kierkegaardiano – all’insegnamento della Scienza e della Biologia, al credo, in una parola, evoluzionistico.
Tre tipi di Uomo, egli osserva, si possono distinguere rispetto al problema della felicità:  gli “stanchi”, i “buontemponi”, gli “ardenti”.  Per  i primi, esistere è uno sbaglio, un fallimento, meglio, dunque, non essere.  Per i secondi, invece è meglio essere, purchè ci si appigli al sapore d’ogni suo frutto , al carpediem,  tendenza che,  dall’antico edonismo di Epicuro  non ha mai cessato, sostanzialmente, di mostrarsi allettevole sino ai nostri giorni, sino a un Paul Morand, a un Montherlant e, in forma assai più sottile, ad un Gide, (quello di Nourritures terrestres) .  Per  gli ultimi, infine,  per gli “ardenti”, i quali vedono nella vita una continua ascensione, una perenne scoperta, la felicità consiste nella possibilità di scalare vetta dopo vetta verso la Terra di Domani.
Or non è che qui si osi, neanche lontanamente,  sfiorare la questione della possibilità di una conciliazione tre l’Origine della specie (per intenderci in breve) e la fede cattolica: solo bastando – a noi profani -  dir questo:  sembrarci di palmare evidenza, una volta ammessa l’esistenza di una Verità unica (il rinascimentale criterio della doppia verità, a nostro avviso, ebbe carattere troppo opportunistico) non poter esservi conflitto tra scienza e religione, pena la falsità dell’una e dell’altra “ La vita – scrive Teilhard – progredisce metodicamente, iirrevocabilemte, verso stati  di coscienza sempre più elevati”.
Questa è la sua certezza: ond’è che, stare a discutere (e sono secoli e secoli che di ciò di discute) quele debbe essere il nostro atteggiamento migliore di fronte alla vita, è come se, viaggiando su un rapido Parigi Marsiglia, ce ne stessimo  ancora a ragionare  circa la convenienza di andare al Nord o al Sud…
D’accordo: ma poi che il supremo insegnamento del Cristianesimo, oggi, sul piano morale, è, si potrebbe dire, accettato da tutti,.credenti e non credenti (“perché non possiamo non dirci cristiani”9, parrebbe che il ricorso di Teilhard alla teoria dell’evoluzione, per meglio convincere l’uomo in genere,  cioè comune, a cercare la sua felicità (“felicità di crescita”, come egli la chiama) nel continuo superamento, in ogni direzione e dimensione, di se stesso, dovesse essere, se non d’impaccio, per lo meno non giovevole alla immediata intuizione di una verità, la quale indubbiamente meglio si presta ad essere colta nell’area della relazione e della socialità, che in quella della scienza e della biologia.
Anche Socrate (per ribadire quanto s’è accennato) opinava di poter condurre l’uomo verso il vero bene per mezzo del suo “intellettualismo etico”, ma in effetto, più del suo magistero “scientifico”, fu l’esempio di tutto il suo vivere che  potè largamente convincere come solo nell’operare virtuoso consistesse il vero bene, ossia la felicità.
A proposito della quale, vorremmo anche dire che essa viene  sovente – ma erroneamente –identificata col piacere, come dall’altro lato col suo opposto, il dolore, viene identificata l’infelicità..
De Chardin, dal canto proprio, con la distinzione che fa tra “felicità di tranquillità” (quella degli “stanchi”), “felicità di piacere” (quella dei buontemponi”) e la già vista “felicità di crescita” (quella degli  “ardenti” ),  parrebbe voler evitare (diciamo: parrebbe, e ne vedremo il perchè) la pur diffusa confusione.  
Io posso trovarmi, infatti, in uno stato di dolore ed essere felice.  Felicità e infelicità sono, vorremmo dire, come  ottimismo e pessimismo, due costanti fondamentali dello spirito, sulle quali dolore e piacere sogliono strisciar via a guisa di nembo su plaga ferace, o di zeffiro su landa riarsa, attenuandone rispettivamente, di volta in volta, la carica, ma senza, almeno generalmente, cambiandone natura..
E in che cosa potrebbe mai consistere la felicità se non nell’amore?  E in che cosa la felicità, se non nella impossibilità, giustappunto, di amore?  L’infermo, pertanto,non sono gli altri, l’inferno siamo noi.
Teilhard, cristiano, celebra ed esalta, come è ovvio, la sublime importanza della Carità.  Ma c’è su questa un suo pensiero – estraneo alle “Reflexions” – che indubbiamente ne scema l’assoluta sovranità, e non ci pare di poter quindi condividere.
Eccolo: “ La Carità è unitiva, ma in sé stazionaria”.  Stazionaria?  Non è, la sua potenzialità inesauribile come ogni altra potenzialità dello spirito ?  Neanche la pace  - che pur sembrerebbe equivalere a una sorta di beata stasi – neanche la pace – che pure è la prima destinata a chi vive essa Carità, e  certamente costituisce la suprema, unica felicità attingibile in terra – subisce a vedere bene, qualsiasi minimo arresto.  Pensare pertanto, come Teilhard pensa, che il perfezionamento naturale dello spirito, vale a dire la conquista della felicità, non si ottenga nella sua pienezza se non con lo sforzo combinato di ogni Scienza, di ogni Estetica, di ogni Morale, e così via, parrebbe dover rendere la già difficile marcia verso la felicità tanto più difficile e quindi non da tutti, anzi da pochissimi, condotta a fondo.
Né questo manca di avvertire lo stesso De Chardin, se crede necessario prevenir subito l’obiezione – che potrebbe essergli rivolta – così: “Il che non porta, rassicuratevi, a compiere delle cose importanti, straordinarie ( aveva egli infatti, pochi attimi prima, ricordati i Curie,Termier, Nansen, gli insigni pensatori, in una parola, della civiltà) ma soltanto, e tutti lo possono, a fare grandemente la più piccola cosa, appena divenuti consapevoli della nostra solidarietà vivente con una grande Cosa.  Aggiungere un esiguo punto al magnifico richiamo della Vita, distinguere l’Immenso che sta e ci attira al centro e al termine delle nostre  attività più dimesse: questo è alla fine il grande segreto della felicità”.
Ora, qui, sia ben chiaro, non è che si voglia in alcun modo ironeggiare, più o meno leopardianamente, su “le magnifiche sorti e progressive “, e neanche mettere in dubbio la sacralità della forza che le promuove (anche se poi distorte – basti pensare allo spettro H  - dal loro altissimo fine), ma ci sembra che quella coscienza di “solidarietà vivente con una grande Cosa”, di sapore prettamente scientifico, non possa essere conseguita – come sopra si diceva – se non da pochissimi.  Come attingerla, infatti, se non attraverso quell’iter, che i pionieri per l’appunto, sieno pur modesti, della civiltà, soli riescono a percorrere?
No: la vera felicità (da non confondere neppure – e così chiarifichiamo la riserva da noi fatta circa la sopra citata “felicità di crescita” – con la “soddisfazione”, con la “gioia” di chi scopre, di chi inventa) la vera felicità non può non essere che per tutti: per i grandi non meno che per gli umili, per gli scienziati non meno che per gli ignari, i quali intendono la Carità, semplicemente, come amore di dio e del prossimo, e non certo come amore altresì dell’Universo nel suo perenne divenire, cioè  veduto alla luce di ogni ultima conquista della Fisica e della Biologia.
Ora non è, si capisce, che la via della felicità, per il “Darwin cristiano”, possa allontanarsi di un minimo  di quella indicata da Chi disse di sé: “Io sono la  Via, la Verità, la Vita”.  Ma questa pertinace fatica di lui (persino commovente) tesa ad abbinare (stavamo per scrivere puntellare) l’insegnamento di Gesù con quello dell’Evoluzionismo, parrebbe essere cosa assai pericolosa o per lo meno supeflua.

Mario Blasi
Città di Vita 1965



 
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