mercoledì 31 ottobre 2012

Il paleontologo della teologia

 
                    Geminello Alvi
 
L’ascetico quarantacinquenne, che vagava nel 1926 attraverso le foreste di Hong Kong, emanava la compitezza seducente e ricca della vecchia Francia. Districava i bambù con delicato charme aristocratico e pareva ancora il signore della magione dov’era nato in Alvernia. Invece era gesuita, ma senza tonaca alla ricerca di fossili, essendo uno dei più eruditi paleontologi del mondo. Scostato un intreccio di cespugli, si vide davanti lo squallido paesaggio di una foresta bruciata per far posto all’albero della gomma. Chiunque, e forse pure lui che aveva gran bontà nel cuore, ne sarebbe divenuto furioso, o almeno inconsolabile per lo scempio ecologico. E invece proprio quella desolazione a lui pareva la conferma di quanto da tempo aveva inteso nelle sue ricerche: «Stiamo assistendo alla nascita di una nuova zona di vita attorno alla Terra, e sarebbe assurdo rimpiangere la scomparsa d’un antico strato che deve cadere...». Da quella ossessione per i fossili e le pietre che l’aveva posseduto sin da bambino Pierre Teilhard de Chardin aveva dedotto infatti una potente teologia.
Alla sua percezione di mistico, e però anche di scienziato, pareva in atto un convergere della natura e degli Io, straziante solo a obliarne l’esito. Il Cristo dava modo all’umanità di portare a riunione la Terra in superiore coscienza. Mentre l’emanazione della Natura creata si disfaceva, una noosfera umana compiva via via la Terra in un Corpo di Gloria che era il suo fine. L’evoluzione era insomma il complicarsi di tutti i nessi di vita nei quali però poteva riconoscersi una tendenza unitiva, verso il punto Omega: l’Apocalisse che implicava il compimento del fenomeno umano. Estasi, abbraccio conclusivo del Cristo ad Adamo che Teilhard vedeva scritto negli strati fossili come nei destini. In Cristo «la materia... prende coscienza di sé solo in noi».
Questa mistica della materia l’aveva posseduto del resto sin da giovane, quando in devozione a un ritratto del Sacro Cuore, ne aveva visto dissolvere i contorni. Come se «la separazione tra il Cristo e il mondo circostante si fosse trasformata in una fascia vibrante in cui tutti i limiti si confondevano... vi passavano scie fosforescenti, che rivelavano un loro continuo sgorgare di vita fino alle sfere estreme della Materia». Al noviziato presso i gesuiti ad Aix en Provence nel 1899, dodici anni più tardi era seguita l’ordinazione nel Sussex. Giacché gli studenti gesuiti s’erano dovuti esiliare in Inghilterra sotto la Terza Repubblica. Ma nel frattempo aveva applicato tutte le sue altre energie alle scienze naturali. Anche in Egitto dove insegnò dal 1905 per tre anni. E fu in quest’Oriente bevuto avidamente nella sua luce, e nei suoi deserti che sentì di potersi tuffare in Dio per mezzo della Natura. Nel 1912, lavorò al laboratorio di paleontologia del Muséum d’Histoire Naturelle di Parigi e ad Altamira in Spagna.
 
 
 
 
 Ma poi arrivò la grande Guerra e Teilhard venne mobilitato come infermiere in un reggimento coloniale. Una medaglia al valore e il cavalierato della Legion d’onore, premiarono il suo coraggio. Dopodiché proseguì gli studi alla Sorbona e prese tre lauree in geologia, botanica e zoologia. Maître de conférence a Parigi, dottore nel 1922, finì a Tien Tsin, dove per due anni partecipò alle massime scoperte paleontologiche di quegli anni. Fu quando nel deserto di Ordos in Mongolia scrisse La Messe sur le Monde. Che riprese poi nelle conferenze che tenne a Parigi agli allievi della scuola Normale e del Politecnico. Gli uditori furono entusiasti, e i testi delle sue conversazioni iniziarono a circolare sotto forma di dattiloscritti. Alcuni teologi di Lovanio gli chiesero però di redigerle. Così nel 1925 scrisse alcune pagine in cui sostiene la necessità di stabilire un accordo tra il dogma del peccato originale e le nuove scoperte della paleontologia. Bastò perché il testo arrivasse a Roma e lui venisse pregato di lasciare la sua cattedra di Parigi per ritornare in Cina.
Eppure era a ben vedere insensato sospettare Teilhard de Chardin di darwinismo. Darwin era stato moderno perché, dicendo d’Adamo che era una scimmia specializzata, aveva fatto divergere dall’uomo la cosmicità divina. Col darwinismo veniva ripudiata ogni sapienza, che permettesse di veder convergere la Terra in un Adamo divino. Teilhard de Chardin invece era importante, perché nella materia riscopriva un movente unitivo, un convergere dell’umano e della Natura: il Cristo era il fine della materia trasmutata dagli uomini, redenta. Per vent’anni in Cina proseguì a studiare nei fossili le onde di questa sua materia sempre meno distinguibile dallo spirito. Notevole una lettera del 1927: «...vedo crescere la possibilità di un’altra ipotesi: che i cinesi cioè siano dei primitivi arrestati, degli “infantili” la cui stoffa antropologica sarebbe inferiore alla nostra... la loro massa emana una insuperabile forza di livellamento e di “dissoluzione”. Tra loro, tutto ciò che tende a elevarsi viene immediatamente riportato a zero. Tutto ciò che vive a lungo in mezzo a loro è psicologicamente sminuito, snervato. Ho una buona mezza dozzina di amici che non sembrano corrispondere a questo modello, saranno forse individui eccezionali, terminali».
Studiò accuratamente la storia dei mammiferi nella Cina del Nord e raccolse le prove che il Sinantropo era un Homo faber che praticava il taglio delle pietre e conosceva il fuoco. Ma era solo una delle scoperte che gli diedero fama e onori. La morte della madre e della sorella, nel 1936, gli diede un dolore più grande di quelli che aveva conosciuto in guerra. Vedeva nelle donne una energia luminosa e casta, portatrice di coraggio, ideali e bontà. Applicò questa cavalleria alle molte con cui corrispose, e si sentì unito. Aveva sessant'anni quando lasciò la Cina che stava per patire l’inizio della dinastia di Mao. Un infarto non gli evitò che a Roma gli rifiutassero la pubblicazione del libro Il Fenomeno Umano. Ma i superiori lo stimavano e la Compagnia di Gesù lo considerava un figlio prediletto. E quanto egli vedeva era già smisuratamente più vasto e maestoso di tutte le inerzie e gli ostacoli. Però dovette lasciare Parigi. Dal 1951, visse negli Stati Uniti, ma recandosi in Sud Africa a indagare giacimenti di Australopitechi. L’Africa è il solo continente che permette una collezione completa dei differenti livelli dell'industria litica. Infine si ritirò presso una Fondazione, a New-York, e si vide libero a sorpresa dalla mente. Il 15 marzo 1954, durante un pranzo al Consolato di Francia, Padre Teilhard confidò ad alcuni parenti: «Desidererei morire il giorno della Resurrezione». Agli inizi del 1955 in una lettera il desiderio era già evoluto a quasi certezza: «Se non ho preso abbagli, chiedo al Signore di morire il giorno di Pasqua». E il 10 aprile 1955, in una splendida giornata, dopo aver assistito alla solenne funzione nella Cattedrale di San Patrizio, Teilhard si recò a un concerto, poi a casa di amici. Colloquiò elegante e mite, e sorseggiando il té crollò per un infarto. Era quel giorno della sua morte appunto una domenica di Pasqua.

(da Il Giornale 12 agosto 2007)

© SOCIETÀ EUROPEA DI EDIZIONI SPA - Via G. Negri 4 - 20123 Milano
 
0
 

Nessun commento:

Posta un commento