domenica 25 novembre 2012

Carlo Bo



Da gesuita proibito a “ottimista di Dio
                          Carlo Bo
 
Domenica scorsa Giovanni Paolo II ha in qualche modo aperto anche l’anno dedicato a Giovanni XXIII e nello stesso giorno si è tenuto a Firenze un convegno (relatori Italo Mancini e Lucio Lombardo Radice) per ricordare un altro centenario, quello della nascita di Teilhard de Chardin. Sono coincidenze che assumono una luce particolare soprattutto nell’ordine della vita spirituale.  Nel nostro caso mi pare indubbio che, sia pure in modi diversi e con strumenti altrettanto diversi, tutti e due hanno fortemente contribuito ad ampliare e vivificare la visione  della Chiesa cattolica.  Su un puinto, poi,  le concordanze risultano inequivocabili, la necessità di procedere all’abbattimento di steccati, ostacoli, insomma di quanto per secoli ha contribuito ad irrigidire e sclerotizzare  sempre di più la questione religiosa.
 
 
 
 
Se Papa Roncalli, per forza di cose, ha dovuto fronteggiare una situazione per gran parte pratica, il gesuita francese ha potuto misurarsi con ben altri argomenti e, in qualche modo, inventare su delle labili tracce,il percorso misterioso della vita spirituale.  Ma il punto d’arrivo restò per tutti e due uguale: Cristo, l’identificazione della salvezza nell’idea di movimento e, infine, l’attesa per una sorta di giudizio universale dove la somma della pietà e della comprensione avrebbe saldato il negativo delle colpe e degli errori.  Se potessimo servirci di un’immagine, diremmo che tutti e due hanno saputo scrutare un cielo che, per ragioni naturali e storiche, è rimasto immobile per secoli e poi improvvisamente ha conosciuto dei momenti e degli spazi di luce.  Ed è proprio in questi spazi, in questi “punti bianchi” che non hanno temuto di intravedere  il futuro che, senza dubbi e riserve, sarà un futuro positivo, il solo modo di glorificare  in  Cristo l’oscuro e tragico cammino degli uomini.
Si conoscono le difficoltà incontrate dal “gesuita proibito”  (secondo un titolo  diventato ben presto famoso di Vigorelli) per tutta la vita tenuto in sospetto e costretto al silenzio.   Purtroppo questo stato di riserva  profonda e di dubbio non è cessato neppure quando al lungo silenzio è seguito il tempo confuso dell’enorme successo.  Teilhard è stato vittima di una segreta ostilità nei giorni della lotta e in quelli del trionfo e a volte non si capisce bene che cosa,  quali dei due movimenti identici e contrari gli abbia nociuto di più.   Oggi a cose composte si cerca di spostare  la questione sul tavolo dei risultati,  ma seguendo un metodo errato.  Teilhard va preso nel suo insieme , nel totale delle sue aspirazioni:  se, invece, dividiamo, lo separiamo, ne distinguiamo il filosofo dallo scienziato e questi due aspetti dal principale che riguarda il mondo dello spirito, si finisce per avere un corpo frammentario e irriconoscibile.
Eppure questo sembra essere  il sistema adottato negli ultimi tempi e allora gli scienziati passano a condanne spesso ingiustificate,  per esempio accusandolo di errori che lo stesso padre gesuita aveva denunciato come tali.  Allo stesso modo i,  filosofi non orientandosi in un quadro che ha altrove le sue radici, non sanno che registrare un vuoto di fondo:  Teilhard, infatti, non ha avuto un pensiero sistematico  e le sue intuizioni si muovevano ben al di sopra e al di là delle stesse ragioni scolastiche.
Gli si è riconosciuta la qualifica di pensatore, che per noi è riduttiva e tende a ricacciare Teilhard in quell’area di mondanità intellettuale che non è la sua.  Non va, infatti, dimenticato che con il successo ha preso quota  questa accusa, ma non bisognava accusare Teilhard di questo, bensì i suoi sostenitori dell’ultima ora. Comunque, tutti questi tipi di obiezioni avrebbero un senso e dovremmo accettarli come punto di partenza per una discussione,  se la caratteristica di Teilhard fosse esclusivamente di natura intellettuale.  Invece non è questa la sua categoria: per capire che cosa volesse e dove tendesse Teilhard non c’è che da rifarsi alla testimonianza sulla natura della sua fede, sul suo modo di intendere la natura della funzione del cristianesimo.  In quelle pagine memorabili viene postulata un’invocazione che dovrebbero riassumere tutte le fatiche e gli sforzi del genere umano, o meglio della Terra, non scartando nulla, non basandosi sulla parte morta della tradizione e sull’abitudine,  ma cercando un collegamento tra la parte alta, rappresentata dalla scienza e dalla filosofia,  e la parte altrettanto importante ma segreta e imperscrutabile, della fatica e della pena umane.
Per Teilhard se si riconoscono queste forze bisogna concludere che tutte vanno in un certo senso, sono in movimento e nel movimento sta la chiave indispensabile per leggere con qualche certezza la realtà.
Teilhard ha sempre sostenuto di aver trovato nella sua Compagnia di Gesù tutto il sostegno necessario per le sue ricerche, non era una frase di circostanza, un modo larvato di giustificare la  propria obbedienza, era invece un modo diretto per ricollegarsi allo spirito stesso del fondatore della Compagnia, Sant’Ignazio di Loyola.
Così come il santo si era ispirato a una concezione militare  della vita, allo stesso modo il gesuita Teilhard fondava le sue carte sull’osservazione del punto più vitale e importante del mondo moderno, la scienza.   Sono due modi di adeguare la propria fede al mondo, con l’intento non già di dominarlo, ma di coinvolgerlo nell’adorazione e nella comunione con Cristo.  In più si nota nel “gesuita  proibito” un procedimento agguerrito e moderno, alludo a quel suo procedere per riflessi ed echi: sarebbe sciocco imputargli un sistema di pure rarefazioni e questo perché non  lo interessavano i risultati parziali e la sua vera preoccupazione era cogliere da tutte le parti possibili le voci, le allusioni, i minimi cenni per stabilire quella corrente unica che egli chiama “l’universalizzazione del Cristo”.
Ne discende che la scoperta di Teilhard è stata perfezionata al di fuori delle leggi delle morali, di quanto gli uomini avevano saputo costruire delimitando il loro capo di azione e lasciando fuori un mondo in evoluzione, assai più ricco di stimoli e di ragioni.  La caccia si risolve all’interno del cristianesimo e così tutto il mondo viene ad arricchire la figura del Cristo e non già ad occuparla fino all’ultima cancellazione.  Rifacendosi a San Paolo, partendo dal libro degli attributi di Cristo, era parso a Teilhard che si potessero aggiungere mille altri fattori che soltanto in parte il tempo aveva manifestato.  Il compito del cristiano consisterebbe, quindi, in quest’opera di collaborazione nel disvelamento del mondo.  Siamo ad una  professione d’amore, a quella professione che Giovanni XXIII farà sotto un’altra luce, spinto da un bisogno dell’anima.  Il gesuita fissa, invece, la nuova regola sulla considerazione del mondo in evoluzione e contro  le apparenze che starebbero piuttosto a confermare la parte della divisione e del male. “ Il cristianesimo comincia a chinarsi sullo sforzo umano “, Teilhard intendeva per l’appunto, una serie di ulteriori convocazioni intorno alla croce di Cristo, intendeva spiegare  il mistero del grande fiume umano.  I punti di passaggio sarebbero la corrente orientale, quella umana e, infine, la cristiana.  Evidentemente Teilhard sognava una depurazione, una gigantesca opera di purificazione del lavoro umano.  Il passato, il presente e l’avvenire letti attraverso lo schermo dell’esistenza, dell’evoluzione delle sue diverse forme così come sono state nel tempo interpretate dalle varie religioni, dovrebbero secondo Teilhard, suscitare una convergenza generale sul  Cristo-Universale, che, in fondo soddisfa tutti.
Ora si potranno sollevare molti dubbi su questo sogno della religione dell’avvenire ma Teilhard si ferma ad una proposta di coinvolgimento e non vuole affatto stabilire delle nuove regole.   Il suo futuro è formato dalla progressione continua e costante di tutte le possibili forme di vita.   E’ chiaro come propositi del genere non potessero che allarmare la società religiosa costituita e le altre forme di religione politica che molte ideologie hanno ricavato da una visione istituzionalizzata.
A molti è parso che così si vanificassero all’origine gli sforzi per un miglioramento e uno sviluppo progressivo della società umana, ma anche questo era un abuso nel senso che si suggeriva un’interpretazione parziale e limitata della proposta teilhardiana,: ciò che si dava per vanificato era invece ben presente nella voce della fatica e della pena umane.  Caso mai, la differenza andava cercata là dove realmente e3sisteva: il gesuita presupponeva la buona disposizione del mondo e quindi ne riconosceva l’opportunità dello sviluppo ma nello stesso tempo riservava a Dio lo spazio che è soltanto suo.  Al contrario gli organizzatori di religioni e di società esclusivamente finalizzate al successo visibile, al progresso registrabile, mettevano l’uomo in stato di soggezione e riservavano a Dio una funzione puramente passiva.  Come si vede, sono due posizioni opposte: da una parte da una parte l’ottimismo teilhardiano, dall’altra il pessimismo di quanti limitano le infinite possibilità di evoluzione del mondo.
Per quanto si faccia, si torna sempre al punto di partenza, al dato della fede che trasforma tutto, della fede che aiuta e spiega e aiuta a perdonare, della fede come mistero che lentamente ma progressivamente disvela.    Di qui la diversità degli strumenti degli strumenti: politici e anche scienziati vogliono gestire per intero l’esistente dei grandi laboratori forniti dall’umanità e dove il senso di Dio non rientra nei calcoli verificabili, mentre un credente come Teilhard fa di Dio il polo insostituibile di ogni convergenza storica (di millenni), la conclusione di ogni discorso fatto e da fare.
O se si vuole segnare ancora una contrapposizione: da una  parte l’ateismo o l’umanesimo ateo e dall’altra il mondo che si trasforma perennemente in Cristo.
E’ stato, questo di Teilhard, più un sogno sulla realtà che un progetto, un’invocazione dell’anima, ma per quanto possa apparirci improbabile e molto arduo è alla fine  assai
meno doloroso e astratto degli altri progetti che esaltano il caso, il vuoto e il disordine:   E’ stato detto che in questa sua battaglia di millenni Teilhard ha finito per mettere accanto a Loyola lo spagnolo dell’assoluto, don Chisciotte.  Mi sembra che non si sia capito nulla o quasi: don Chisciotte lottava per ciò che era stato e si affidava ad una biblioteca morta, la biblioteca di Teilhard è fatta ogni nuovo giorno di attese non scritte e di speranze nel grande fiume umano.  Da questo punto di vista la grande poesia sta con lui, non con l’eroe paradosso del Cervantes.  Don Chsciotte, infatti,  trasformava la realtà in sogno.  Pierre Teilhard de Chardin ha presentito che la storia opera perché il sogno diventi realtà e tutto si disponga verso il Cristo.

 
Corriere della Sera,3 maggio 1981, pag.3










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